Claudio Mencacci, direttore emerito del dipartimento di Neuroscienze e salute mentale dell’Asst Fatebenefratelli-Sacco di Milano, ci aiuta a capire le difficoltà del sistema che in questi anni ha provato ad assistere
«Il tema della salute mentale è centrale, anche se spesso non è all’ordine del giorno delle istituzioni. E in questo momento riguarda soprattutto le giovani generazioni che sono uscite particolarmente sofferenti dall’esperienza della pandemia. Servono più risorse».
Quante?
«Innanzitutto quelle economiche. Nel corso degli anni sono stati ridotti i finanziamenti. Nei Paesi ad alto reddito la percentuale del fondo sanitario nazionale destinata alla salute mentale si aggira attorno al 10 per cento. In Italia ora è al 3,2. E teniamo conto che si tratta di una media tra realtà molto differenti da Regione da Regione, da metropoli ad aree periferiche».
Non è solo questione di soldi.
«Mancano professionisti. Ci sono ospedali in cui sono stati chiusi i reparti di Psichiatria per carenza di personale. E così si è ridotto anche il numero dei pazienti che accedono ai servizi pubblici. Siamo passati dagli 850 mila del 2017 ai 730 mila del 2020. Abbiamo in cura poco più dell’1,5 per cento della popolazione, rispetto al 5 per cento che ci aspetteremmo. Pesa anche un forte pregiudizio».
La vergogna di chiedere aiuto?
«La malattia mentale è colpita da uno stigma che va eliminato. Casi come quello di Sesto fanno scalpore, ma ricordiamoci che in Italia gli omicidi correlati a malattie mentali sono poco più del 5 per cento. Avere un disturbo e rivolgersi ai centri dedicati, quindi, non vuol dire essere delinquenti».
Nonostante la sofferenza del sistema, come si spiega il caso Loprete (il 19enne accusato di aver ucciso il padre) che era seguito da una struttura pubblica. Possibile che non rispettasse le indicazioni degli psichiatri?
«Esiste sempre una volontarietà delle cure di cui tenere conto e un problema di aderenza terapeutica. In alcune situazioni si può passare da terapie quotidiane ad altre mensili o trimestrali per avere la certezza della continuità dei trattamenti».
Dalle prime informazioni sembra che il 19enne facesse anche uso di sostanze stupefacenti.
«Alcol e droghe amplificano la violenza e l’incapacità di gestire gli impulsi. E in caso di crisi acute, il paziente può subire anche danni al cervello».
I centri per la salute mentale riescono a fare alleanza con le famiglie?
«È possibile coinvolgere i parenti in gruppi di psicoeducazione».
A cosa servono?
«A capire quali atteggiamenti evitare per non far scattare la scintilla nei pazienti e cosa fare per non amplificare lo scontro. Ma anche a rendersi conto quando è necessario chiamare il 112».
I familiari come parte attiva della terapia.
«Anche loro hanno necessità di interventi per contrastare la solitudine in cui spesso si chiudono».
Insomma, una rete di cure c’è, ma va rattoppata.
«Vanno applicati tutti quei metodi che hanno una robustezza scientifica dimostrata e i cui esiti siano verificabili. E serve una visione a 360 gradi della salute mentale, anche per coordinare la distribuzione delle risorse. Penso per esempio a un’agenzia nazionale che si occupi del tema».
Articolo uscito sul Corriere della Sera il 13 giugno 2022