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Senza prescrizione e controllo anche la 'goccina' di ansiolitico può diventare dannosa

A causa della pandemia sempre più giovani si sono avvicinati agli psicofarmaci. Quest’ultimi non vanno demonizzati perché in alcuni casi sono necessari. Il problema è l’incompetenza, il fai-da-te, il passaparola.

Di fronte alle parole del ministro Bianchi, il quale ha affermato che “l’aumento dell’uso di psicofarmaci tra i giovanissimi è stato certamente forte in questo anno di Covid”, il prof. Mencacci non è sorpreso: “è stato un anno nero per la salute mentale, in particolare dei più giovani, i quali sono risultati essere anche i più fragili – ci racconta -. Ma gli effetti veri, le vere conseguenze a lungo termine, le vedremo solo col passare del tempo”.

Pensa che la pandemia possa aver avvicinato i giovani agli psicofarmaci?

“Penso proprio di sì. La pandemia ha creato in molti condizioni di allerta e forte spavento e questo può aver indotto in modo improprio ad utilizzare gli psicofarmaci, senza avere una diagnosi. Gli psicofarmaci non vanno demonizzati né idealizzati. Se viene riconosciuto un disturbo, anche in un giovanissimo, e se il professionista crede che ce ne sia bisogno, è corretto utilizzarli, magari insieme ad altri interventi di tipo psicoterapico. Il problema nasce quando la condizione del paziente non è oggetto di valutazione specialistica e quando chi li prende non è seguito. Per fare un esempio, è possibile che un giovane viva un attacco di panico tale da condurlo in ospedale. Al pronto soccorso gli viene somministrata una bassa dose di ansiolitici e viene rispedito a casa. Ma da lì in poi bisogna intervenire: è necessario che qualcuno faccia una valutazione diagnostica e prospetti una serie di opportunità di cure. Il rischio altrimenti è che il giovane ricorra a metodi fai-da-te e cerchi di risolvere il problema da solo, con comportamenti non idonei”.

È facile per un giovane convincersi di avere un problema tale da ricorrere all’uso di psicofarmaci?

“Sì. Diversi studi hanno dimostrato come nel corso della pandemia siano aumentati, soprattutto nella fascia dai 14 ai 24 anni, non solo le difficoltà nello gestire le emozioni, lo stress e i pensieri ossessivi, ma anche quanto sia il sentire compromessa la fiducia nelle proprie capacità. Nelle popolazioni molto giovani, parliamo di ragazzini tra gli 11 e i 17 anni, si sono registrati sintomi di natura depressiva, aumento del consumo di alcool, problemi del sonno, preoccupazione per la propria salute fisica (quindi ipocondria), discontrolli emozionali con comportamenti imprudenti (pensiamo ai grandi assembramenti, alle feste e affini). E ancora, c’è stato un aumento dei comportamenti impulsivi e dei gesti di autolesionismo. Tutto questo può essere ascritto alla condizione di sindemia, ma anche alla specifica età”.

Trovarsi nell’età dell’adolescenza, durante la pandemia, complica il quadro?

“Certamente, basti pensare che il 70% dei disturbi psichici compare durante l’adolescenza e che, ad esempio, il disturbo bipolare si manifesta mediamente intorno ai 17-18 anni. Si tratta di un’età particolarmente delicata. I giovani non riescono ad avere un’idea del futuro, per loro esiste solo un grande presente e in questo presente le cose si amplificano. Matura anche il sistema nervoso centrale. In questo periodo della vita alcune aree cerebrali raggiungono una sensibilità che non raggiungeranno mai in altri momenti. Ed è in questa fase che si determinano quelli che saranno ipotetici comportamenti di dipendenza e di assuefazione in futuro. Parliamo di dipendenza da sostanze stupefacenti e alcool, ma non solo: anche di dipendenze affettive, da gioco d’azzardo, dipendenze da Internet. La lista è lunga”.

Crede che in futuro molti giovani di oggi avranno dei disturbi che altrimenti non avrebbero avuto se non ci fosse stata la pandemia?

“Assolutamente sì. Siamo un laboratorio a cielo aperto. Non sappiamo che impatto avranno i disturbi da stress post traumatico sulle menti in maturazione degli adolescenti. Oggi vediamo solo il macroscopico, in seguito vedremo quello che è accaduto ai singoli, nel microscopico. Ad esempio, stiamo studiando il sonno nei giovani, che durante l’ultimo anno è stato totalmente alterato, e dal quale si originano non pochi problemi. Sarà davvero arduo riportarlo alla normalità. In generale, se questa generazione porterà addosso le conseguenze cognitive ed emozionali della pandemia, lo vedremo solo a distanza di tempo”.

Quand’è che il ritiro sociale diventa patologico?

“I giovani hanno avuto reazioni molto diverse durante questa pandemia. C’è chi si è metaforicamente steso sul divano aspettando che passasse la tempesta e chi ha iniziato ad avere atteggiamenti aggressivi nel tentativo di affermare il proprio io. C’è stato anche chi in questo periodo storico si è trovato meglio: pensiamo ai timidi, a chi aveva già un po’ di ansia sociale. In generale, però, i genitori devono tenere gli occhi aperti. Quando un figlio non studia, non esce neanche quando può, non interagisce con gli altri sfruttando i mezzi che ha, quando è sempre irritabile, irascibile è il segno che ritiro sociale può diventare patologico, che siamo al di là del semplice disagio. Bisogna riconoscere per tempo questi campanelli d’allarme. E agire senza improvvisazioni”.

Articolo di Ilaria Betti uscito su HuffPost